Perché in India molte aziende straniere non riescono ad affermarsi: i 5 errori più costosi e i suggerimenti fondamentali per chi vuole investire nel Paese
Le imprese straniere che operano in India spesso non riescono ad affermarsi a causa di cinque errori ricorrenti: la scelta inadeguata della struttura di ingresso, la sottovalutazione della complessità normativa, la scarsa comprensione del comportamento dei consumatori, l’adozione di strategie di mercato inefficaci e la gestione non ottimale dei talenti.
L’India rappresenta una straordinaria opportunità di mercato che va ben oltre la sua popolazione. Con un prodotto interno lordo (PIL) di 4,4 trilioni di dollari, l’India è la quarta economia più grande al mondo e si prevede che supererà la Germania per assicurarsi la terza posizione entro il 2027. L’economia indiana ha mantenuto una crescita del PIL del 6,5% nell’anno fiscale 2024-25, con una crescita del 7,4% nel quarto trimestre.
Oltre il 65% della popolazione indiana ha meno di 35 anni e forma un bacino di consumatori giovane e nativa digitale con aspirazioni crescenti e modelli di consumo sempre più sperimentali.
Tuttavia, tra le aziende straniere persiste un malinteso comune: che le grandi dimensioni del Paese si traducano automaticamente in successo aziendale. In realtà, l’India non è un mercato unico e uniforme, ma un insieme di micro-mercati diversi, ognuno con le proprie preferenze di consumo, sfumature culturali e requisiti normativi.
Tra il 2014 e il 2021, più di 2.783 aziende straniere sono uscite dall’India, anche se nello stesso periodo ci sono stati quasi 11.000 nuovi ingressi. Secondo i dati della Federation of Indian Chambers of Commerce & Industry (FICCI), oltre il 40% delle aziende straniere fallisce entro cinque anni dall’ingresso nel mercato. I fallimenti sono spesso riconducibili a controversie in materia di conformità, passività fiscali, errori culturali o cambiamenti inattesi nelle politiche del Governo indiano.
Errori di ingresso nel mercato: lezioni dalle aziende straniere che hanno avuto difficoltà in India
In questo articolo analizziamo cinque casi in cui grandi multinazionali hanno incontrato difficoltà in India e discutiamo alcune lezioni che i futuri investitori possono trarre dalle loro esperienze.
1. Scelta della struttura di ingresso sbagliata
Uno degli errori più frequenti che le aziende straniere commettono in India è la selezione di una modalità di ingresso inadatta. La scelta tra la creazione di una consociata interamente controllata, una joint venture, una filiale o un ufficio di collegamento determina il livello di controllo di un’azienda, la capacità di crescere e la flessibilità operativa complessiva.
Gli uffici di collegamento (liaison offices) spesso rappresentano una delle principali fonti di difficoltà. Possono operare unicamente come intermediari e non sono autorizzati a svolgere attività commerciali o di produzione. Le aziende che scelgono questa struttura iniziale si trovano spesso limitate quando il mercato si espande e cresce la necessità di operazioni più complesse.
Un esempio più complesso riguarda le joint venture.
Nel 2009, NTT DoCoMo investì in Tata Teleservices con un patto parasociale che includeva una clausola di protezione al ribasso. La clausola garantiva a DoCoMo, in caso di uscita, il recupero del 50% del proprio investimento o del valore equo di mercato, a seconda di quale fosse il maggiore. Tuttavia, la Reserve Bank of India (RBI) considerò le clausole a rendimento garantito come strumenti di debito, soggetti a limiti sugli investimenti esteri in India. Di conseguenza, Tata necessitava dell’approvazione della RBI per rispettare il prezzo di uscita predeterminato di 58,045 INR per azione, ma l’approvazione venne negata.
Nel gennaio 2015 DoCoMo si è rivolta alla Corte di arbitrato internazionale di Londra (LCIA). Nel giugno 2016, il tribunale le riconobbe 1,17 miliardi di dollari USA a titolo di risarcimento per la mancata esecuzione, da parte di Tata, dell’obbligo di uscita. Quando Tata cercò di far rispettare il lodo in India, la RBI tentò nuovamente di intervenire. L’Alta Corte di Delhi, tuttavia, stabilì che la RBI non era legittimata ad agire in base alla legge sull’arbitrato e la conciliazione, consentendo così a DoCoMo di ottenere e rendere esecutivo il proprio risarcimento.
Il caso DoCoMo-Tata dimostra come le clausole di uscita e le opzioni di vendita (put) debbano essere conformi alle normative sugli investimenti, in particolare alle norme della Banca Centrale che disciplinano la valutazione delle azioni e il rimpatrio dei capitali. Evidenzia inoltre l’importanza di una consulenza legale e normativa specializzata, di un monitoraggio costante dei cambiamenti normativi e di una strutturazione contrattuale proattiva.
Le imprese dovrebbero inoltre prevedere, nella loro strategia di ingresso, una due diligence di mercato e la business intelligence, predisporre piani di emergenza per potenziali obblighi di riacquisto e garantire che gli organi di governance istituiscano meccanismi di revisione periodica. Questi passaggi possono ridurre significativamente il rischio che le controversie si trasformino in situazioni costose e dispendiose in termini di tempo.
2. Errata valutazione della complessità normativa
Molte aziende multinazionali hanno incontrato difficoltà quando hanno dato per scontato che le pratiche di conformità globali fossero sufficienti per affrontare le normative e le politiche dei mercati emergenti.
I mercati emergenti, pur offrendo l’opportunità di una crescita rapida, presentano anche il rischio di cambiamenti improvvisi nelle norme fiscali e nei limiti agli investimenti esteri. Le imprese devono inoltre confrontarsi con molteplici livelli di approvazione, in cui governi centrali e statali applicano spesso requisiti contrastanti.
Le unità CKD (Completely Knocked Down) sono soggette a dazi doganali compresi tra il 30% e il 35%, mentre i singoli componenti sono tassati con aliquote comprese tra il 5% e il 15%. Errori nella loro classificazione possono comportare costi elevati, come hanno sperimentato grandi case automobilistiche come Volkswagen e Kia.
Volkswagen è stata accusata di classificare erroneamente le importazioni di veicoli per oltre un decennio. Le autorità affermano che l’azienda ha importato il 90-95% delle parti di veicoli in spedizioni scaglionate utilizzando un software di proprietà per suddividere gli ordini all’ingrosso in spedizioni più ridotte, evitando così tariffe CKD più elevate. Il caso ha portato alla più grande richiesta di tasse sulle importazioni mai avanzata dall’India, pari a 1,4 miliardi di dollari. Altre case automobilistiche, tra cui Mercedes-Benz e BMW, hanno classificato correttamente importazioni simili, il che significa che l’approccio di Volkswagen è stato un’eccezione.
Kia ha affrontato un’indagine simile. I funzionari sostengono che oltre il 90% delle parti per il suo monovolume Carnival sia stato importato come spedizioni separate, dichiarate come singoli componenti, anche se il veicolo è stato presentato come CKD sul sito web dell’azienda. Un avviso governativo dettagliato in 432 pagine ha sostenuto questa richiesta, che lascia Kia con una potenziale responsabilità fiscale di 155 milioni di dollari.
Questi casi dimostrano l’importanza del rigoroso rispetto delle norme locali e della corretta e trasparente gestione dei documenti. Le imprese dovrebbero assicurarsi di disporre di canali di comunicazione chiari con le autorità doganali, studiare le decisioni preliminari sulle classificazioni e mantenere una riserva di rischio per le richieste retroattive che potrebbero sorgere in futuro.
3. Interpretazione errata del comportamento dei consumatori locali e delle catene di approvvigionamento
Le aziende straniere spesso sopravvalutano i prezzi, gli imballaggi e le caratteristiche dei prodotti che hanno successo nelle economie mature, ma potrebbero non trovare lo stesso riscontro nei mercati in cui l’accessibilità e il gusto guidano le decisioni di acquisto. In India, le aziende con reti di fornitori locali frammentate e una debole logistica dell’ultimo miglio devono affrontare gli ostacoli dei costi più elevati e della portata limitata dei prodotti rispetto alle aziende che hanno una migliore conoscenza del mercato e partnership locali.
La decisione di General Motors (GM) di uscire dall’India nel 2017, dopo oltre due decenni di attività e oltre 1 miliardo di dollari di investimenti. illustra chiaramente i rischi derivanti dal non aver compreso correttamente i gusti dei consumatori. Nel 2015, GM deteneva solo l’1% delle azioni, molto al di sotto delle aspettative del mercato. L’azienda non è riuscita a eguagliare la fascia di prezzo dominante in India di 300.000-600.000 INR (3.403,8-6.807,7 dollari), dove viene venduta la maggior parte delle auto di piccole dimensioni. Invece, ha introdotto veicoli più costosi che non soddisfacevano le esigenze di accessibilità delle famiglie indiane.
La dipendenza di GM dalle importazioni e la debole base di fornitori locali hanno aggravato il problema. A differenza di Maruti Suzuki e Hyundai, che hanno localizzato la produzione per ridurre i costi, GM ha lottato con gli alti prezzi delle importazioni che hanno reso i suoi veicoli non competitivi. Ad aggravare la sua instabilità ci sono stati frequenti cambi di leadership. L’azienda ha nominato nove amministratori delegati in 21 anni, con una media di soli 2,5 anni per mandato, rispetto al leader di mercato Maruti, che ha avuto solo cinque amministratori delegati in 35 anni.
GM ha iniziato come joint venture con Hindustan Motors nel 1994, è passata a operazioni indipendenti, ha stretto una partnership 50:50 con SAIC nel 2009 e successivamente è tornata alla proprietà di maggioranza nel 2012. Questa instabilità, combinata con la crisi finanziaria globale del 2008 e la sua ristrutturazione aziendale allora in corso, ha distolto anche la sua attenzione dalle operazioni in India.
Il fallimento di GM dimostra che il successo nel mercato automobilistico indiano richiede la costruzione di una profonda rete di fornitura locale, i prezzi dovrebbero essere realistici e soddisfare la spesa media dei clienti, la leadership dovrebbe essere stabile e paziente e ci dovrebbe essere la volontà o la lungimiranza dell’azienda a trattare il mercato indiano come un impegno a lungo termine. Nei mercati emergenti, è preferibile adottare un’espansione graduale, piuttosto che effettuare investimenti iniziali aggressivi, al fine di garantire un futuro più sostenibile.
4. Adozione di un modello di mercato errato e difficoltà legate al contesto culturale
Le aziende possono pagare un prezzo elevato per la scelta del modello di business errato, come scegliere la vendita al dettaglio rispetto all’online o i piccoli negozi al dettaglio rispetto ai grandi centri commerciali. Anche la disattenzione verso le differenze culturali aggrava queste sfide. A volte, campagne di marketing che non rispettano i valori locali rischiano di alienare allontanare i consumatori.
Dunkin’ Donuts ha vissuto questa esperienza con il suo ingresso in India nel 2012 con l’obiettivo di aprire 500 punti vendita a livello nazionale, attraverso una partnership con Jubilant FoodWorks. Entro il 2018, più della metà dei suoi negozi aveva chiuso, rendendo il caso un esempio di disadattamento culturale e di adozione di un modello di mercato errato nel segmento dei beni di largo consumo (FMCG).
Il marchio ha frainteso la cultura delle bevande dell’India, dove, secondo l’ente del settore, Tea Board of India, il tè rappresenta il 90% del consumo di bevande calde. Le ciambelle non hanno mai guadagnato terreno come spuntino di routine. I prezzi hanno ulteriormente allontanato i clienti, poiché le ciambelle sono state vendute a 60-90 INR (0,6-1 USD), con una spesa media di 150-250 INR [SS1] (1,7-2,8 USD), in contrasto con opzioni locali molto più economiche e largamente disponibili.
La strategia immobiliare e infrastrutturale non ha che peggiorato la situazione. Dunkin’ gestiva negozi di grandi dimensioni in aree metropolitane ad alto costo d’affitto, un approccio poco adatto alle città densamente popolate dell’India e al mercato della ristorazione a basso margine. Concorrenti come McDonald’s, puntavano su punti vendita più piccoli e ad alta rotazione, mentre Starbucks riusciva a mantenersi grazie al suo posizionamento aspirazionale.
Ma a Dunkin’ mancava una chiara identità di prodotto e di marca. Offriva ciambelle, hamburger e snack locali nel tentativo di attirare un ampio pubblico, ottenendo invece confusione nel brand.
Anche il contesto culturale ha giocato a sfavore del marchio. Il consumo di dolci indiani è un’esperienza collettiva. I dolci tradizionali sono serviti in porzioni destinate alla condivisione di gruppo. Le porzioni individuali di Dunkin si scontravano con queste usanze e riducevano la presenza dei suoi prodotti a occasioni sociali o feste. Inoltre, gli Indiani non considerano generalmente le ciambelle un alimento da colazione e preferiscono pasti salati.
Riconoscendo questi ostacoli, Dunkin’ alla fine ripianificò la propria strategia spostandosi in punti vendita più piccoli, introducendo bevande a base di tè e un menu più ampio di bevande e riallineando più strettamente la sua offerta alle preferenze locali, traendo spunto dalla strategia di successo in India del suo marchio gemello, Baskin-Robbins.
La lezione per i marchi stranieri della ristorazione è questa: il successo in India richiede un adattamento che vada oltre l’offerta principale. Le aziende devono localizzare i prezzi, i formati dei prodotti, le esperienze di consumo e le strategie di negozio per adattarli al contesto locale. Esempi iconici, come l’Aloo Tikki Burger di McDonald’s, dimostrano come adattare menu e modelli di business – invece di limitarsi a replicare strategie globali – possa sbloccare una crescita sostenibile nel complesso mercato dei consumatori indiano.
5. Stakeholder deboli e gestione dei talenti
Un coinvolgimento inefficace degli stakeholder e una gestione inadeguata della forza lavoro possono avere conseguenze significative per le aziende straniere che operano in India – con impatti che vanno da costose interruzioni operative fino a danni reputazionali duraturi.
Diversi episodi di rilievo dimostrano come una comunicazione insufficiente, la mancata attenzione alle problematiche dei lavoratori e strategie di gestione del personale poco efficaci possano minare anche i brand globali più affermati.
Nel settembre 2024, Samsung ha dovuto affrontare una delle controversie di lavoro più eclatanti degli ultimi anni, quando circa 1.000 lavoratori della sua fabbrica del Tamil Nadu hanno scioperato per oltre un mese. La struttura rappresentava il 20-30% del fatturato annuo di Samsung in India, pari a 12 miliardi di dollari. I lavoratori chiedevano aumenti salariali e il riconoscimento ufficiale del loro sindacato, ma la mancanza di comunicazione tra la direzione e la forza lavoro ha prolungato la situazione di stallo, evidenziando le lacune nel coinvolgimento delle parti interessate e nei meccanismi di risoluzione dei reclami.
Anche i partner della catena di approvvigionamento di Apple hanno dovuto affrontare ostacoli legati alla forza lavoro. Nel 2020, migliaia di lavoratori a contratto presso lo stabilimento di assemblaggio di iPhone di Wistron in Karnataka hanno inscenato una protesta contro la mancata remunerazione salariale e gli eccessivi orari di lavoro, provocando circa 7 milioni di dollari di danni alla proprietà. Nel 2021, Foxconn è stata costretta a chiudere la sua struttura per oltre tre settimane dopo che centinaia di lavoratrici si sono ammalate a causa del cibo contaminato fornito dall’azienda. Più recentemente, nel febbraio 2024, Flex, un altro fornitore chiave di Apple, ha affrontato uno sciopero che ha coinvolto 750 dipendenti che chiedevano salari più alti e riconoscimento sindacale.
Questi incidenti dimostrano l’importanza di relazioni sindacali proattive, canali di comunicazione trasparenti e pronta reattività nelle pratiche HR. Le aziende straniere devono investire nella costruzione di meccanismi di dialogo affidabili, impegnarsi regolarmente con i rappresentanti dei lavoratori e integrare la gestione degli stakeholder nella loro più ampia strategia di attenuazione dei rischi. In caso contrario, non solo si interrompe l’operatività, ma si minaccia anche la competitività a lungo termine nel panorama manifatturiero sempre più strategico dell’India.
Interruzione della comunicazione culturale
Al di là delle agitazioni sindacali, le aziende straniere spesso interpretano erroneamente la cultura del posto di lavoro in India.
Le aziende che tentano di imporre gerarchie piatte senza adattarsi alle condizioni di lavoro indiane spesso incontrano resistenza. La “cultura del sì” aggiunge un’altra complessità. I dipendenti possono accettare richieste o scadenze anche quando non sono praticabili e questo potrebbe portare le aziende a fare affidamento su impegni che non possono essere rispettati.
La cultura aziendale indiana dà anche la priorita alle relazioni rispetto al completamento immediato delle attivita. Le aziende straniere che si concentrano solo sulle scadenze di lavoro e sui risultati, senza investire nella fiducia interpersonale, spesso lottano con il coinvolgimento dei dipendenti e la fidelizzazione a lungo termine dei talenti.
Riepilogo
Le aziende straniere nei mercati emergenti spesso falliscono non a causa di prodotti deboli, ma a causa di una preparazione inadeguata. Molti minano la loro espansione fraintendendo le normative, interpretando male il comportamento dei consumatori, trascurando le sfumature culturali o scegliendo il modello errato di ingresso nel mercato. Le aziende di successo investono tempo nello studio delle regole locali, nell’assunzione di competenze locali e nell’adattamento dei prezzi e dei prodotti alle esigenze locali. Senza questi passaggi, anche le aziende ben finanziate rischiano costose battute d’arresto o uscite premature.
(1 dollaro USA = 88,13 INR)
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